Giorgio, l’ultimo palombaro di Venezia, rivive i suoi trent’anni nell’abisso: “L’acqua era la mia vita. Ci tornerei anche adesso”

A dieci anni, mentre i suoi compagni nuotavano in superficie, il piccolo e agilissimo Giorgio preferiva muoversi sott’acqua. Nato nella città di Venezia ottantadue anni fa, capì subito che il suo destino sarebbe stato in qualche modo legato a quella dimensione, dove tutto viene attutito, tutto a parte la pressione. A quel tempo, come ci racconta emozionato, le bombole non servivano: era capace di stare in apnea per tre minuti e di nuotare per ore e ore senza mai essere stanco.

Ci volle poco perché il mondo militare si accorgesse di quella predisposizione alla profondità: Giorgio Salvagno frequentò un corso da palombaro a Varignano, in provincia di La Spezia, e da lì non lo lasciarono più. Lo soprannominarono il “Gatto” e per oltre trent’anni divenne istruttore di quella specifica disciplina, facendo lezione anche agli Incursori di Varignano. Conobbe e istruì molti comandanti, anche coloro che erano stati impegnati in conflitti e sminamenti nel Mediterraneo e non solo. 

“Per chi aveva passione come me niente era difficile – ci dice Giorgio in dialetto veneziano, sulla banchina dell’Arsenale. – certo adesso c’è la tecnologia, ma io in tre mesi di corso ero perfetto. Non ho mai avuto un incidente. Mi ricordo che a Varignano non c’era niente a quel tempo: oggi è moderno e ci sono le piscine. Andavo sempre a pesca, si mangiava col pescato fresco tutti i giorni. Non volevano lasciarmi andare via, perché di volontari di leva non ce n’erano più: mi hanno anche richiamato per tre anni, dopo che me n’ero già andato”.

Al Salone Nautico di Venezia, l’associazione MARVE, in collaborazione con il Club Subacqueo San Marco e i Gondolieri Sommozzatori Volontari Venezia, ieri, sabato, hanno voluto mostrare attraverso un’esercitazione come un tempo il palombaro, che si distingue marcatamente dal sommozzatore moderno per tecniche e attrezzatura, si preparasse per le proprie immersioni. Un procedimento lungo e delicato, che prevedeva per esempio almeno una mezz’ora abbondante di vestizione prima dell’effettivo inabissamento. 

Più che di un addetto alle lavorazioni subacquee, in effetti, ai presenti è sembrata la vestizione di un gladiatore romano, anche per l’effettivo peso dello scafandro pensato proprio per tenere sul fondale il palombaro. Soltanto uno stivale zavorrato, per esempio, poteva pesare sette-otto chili, arrivando quindi a far pesare l’attrezzatura totale da 30 a 50 chili. La persona all’interno della muta indossava un pruriginoso tessuto di lana per ore, per proteggersi dalle basse temperature, e correva vari rischi, legati al fatto che risalire in superficie non poteva certamente essere un’azione immediata. 

L’elmo da palombaro, così come il relativo collare sulla muta, era realizzato in lamiera di rame, con alcune finestre di forma circolare in vetro: quella centrale veniva chiusa con due viti soltanto alla fine della preparazione. Nelle versioni più moderne l’elmo ha un attacco per il cavo telefonico, con una manichetta per l’aria e altre funzioni manovrate da varie valvole. 

Mentre osserva con attenzione e grande nostalgia l’esercitazione da palombaro del collega, a Giorgio vengono gli occhi lucidi: “Rimpianti? No nessuno. Era la mia vita. L’acqua era la mia vita. Tornerei anche adesso, ma ho 82 anni. Questa è la vita”. 



    (Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it)
    (Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
    #Qdpnews.it

    Total
    0
    Shares
    Related Posts