Giovanni Modesto Bonan è una vera istituzione a Valdobbiadene da moltissimi anni. Prima che allenatore dell’Atletica Valdobbiadene, dove ha mosso i primi passi nel 1985, e insegnante di Scienze motorie e sportive alla scuola media “Efrem Reatto” (dove è di ruolo dal 2007), è una persona ottimista, motivante e giocosa da cui c’è tanto da imparare.
Pochi conoscono la carriera sportiva del professore nato e residente a Porcen di Seren del Grappa. Per citare solo alcune sue soddisfazioni personali, nel giugno 1974, a 17 anni, ha vinto i 1500 metri ai campionati italiani studenteschi, ha vestito la maglia azzurra giovanile nei 1500 e quella assoluta “dei grandi” nei 3000 siepi in diverse occasioni, ha rappresentato l’Italia due volte ai campionati mondiali militari di corsa campestre ed è stato finalista alle Universiadi del 1983 nei 3000 siepi. Ha vinto, inoltre, 4 titoli italiani universitari nei 3000 siepi, cinque volte argento ai campionati italiani della medesima specialità. Poi nel 1984 smette di colpo e si dedica all’insegnamento… Nell’intervista esclusiva che ha concesso a Qdpnews.it scopriremo il perché.

Come nasce la sua passione per l’atletica e per il mondo dello sport in generale?
Al mondo dell’atletica, della corsa in particolare, sono stato introdotto da due miei fratelli molto più vecchi di me. Loro erano una specie di pionieri della corsa locale e partecipavano alle prime gare che venivano organizzate a metà degli anni Sessanta. Io, piccolino di 7-8 anni, seguivo le loro gesta e cercavo, inutilmente, di rincorrerli negli allenamenti in mezzo ai prati. Nelle sagre di paese, fin da adolescente, organizzavo le garette per i miei coetanei costruendo personalmente le bandierine per delimitare il tragitto. Poi i Giochi della Gioventù hanno creato l’entusiasmo per proseguire.
Quali sono le soddisfazioni agonistiche che si porterà per sempre nel cuore?
Probabilmente la più grande emozione l’ho avuta vincendo il titolo studentesco nei 1500 metri nel 1974. Da sconosciuto ragazzo di “montagna” ero il diventato miglior mezzofondista diciassettenne del tempo. Una vittoria che ha cambiato completamente la mia vita e l’ha orientata verso la professione che svolgo oggi. Scegliendo di fare l’atleta ho scelto di studiare. Non era così scontato per le famiglie in quegli anni. Altre soddisfazioni indimenticabili sono state l’esordio in maglia azzurra all’Olimpico di Roma oppure la partecipazione alle Universiadi in Canada, ma anche successi sulla carta meno prestigiosi che mi hanno gratificato molto. Per esempio ricordo una vittoria alla “StraBelluno”, prestigiosa gara nazionale negli anni ’80: non è mai facile fare il profeta in patria. Oppure, nel 1980, la vittoria della “StraMilano” dei 50.000 partecipanti, una folla inimmaginabile.

Il caso Schwazer non è una mosca bianca. Il doping era diffuso anche ai suoi tempi. Qual è stata la sua risposta?
Qui entriamo in un campo minato. Non è facile per me ripercorrere quei tempi. Dico solo che la mia interpretazione dello sport non prevedeva imbrogli. Sono stato un atleta corretto anche negli aspetti agonistici. Non utilizzavo sotterfugi o trucchetti per infastidire gli avversari. Per me doveva vincere il più forte, non il più furbo, quindi agonista e non antagonista. Giocavo le mie carte attraverso il sacrificio e la volontà. Queste caratteristiche provenivano dall’educazione ricevuta. Sicuramente ai miei tempi più di qualcuno barava, diciamo che riceveva degli “aiutini”. Era un aspetto fastidioso e nell’ambiente si intuiva senza averne le prove. Sostanzialmente mi ha portato ad interrompere la mia carriera a soli 27 anni. Non ho però rimorsi. Io posso guardare tutti negli occhi, qualcun altro no, ben sapendo di aver raggirato le regole per affermarsi.

Quanto è importante la disciplina che insegna da una vita nelle scuole?
Direi fondamentale, soprattutto dopo gli ultimi due anni vissuti in pandemia. La componente motoria in questa società che corre veloce con la tecnologia deve riappropriarsi degli strumenti umani che ciascuno di noi ha dalla nascita: gli schemi motori di base. Sono le unità basiche del movimento: gesta innate, spontanee, naturali. Quanti dei nostri ragazzi sanno correre, non dico bene, ma solo correre? Quanti sanno rotolarsi, fare una capovolta, arrampicarsi da qualche parte; quanti sanno fare un semplice salto, afferrare un oggetto oppure lanciarlo? Queste carenze di semplici espressioni di movimento, se non potenziate e consolidate, si ripercuotono in futuro poiché il ragazzo non è poi in grado di apprendere nuove abilità che potrebbero essere utili anche nel campo lavorativo di qualsiasi genere. Quindi alle famiglie va l’invito di avvicinare per quanto possibile i ragazzi al movimento, qualunque esso sia, e di farli appassionare alla pratica sportiva.
Dopo due anni di pandemia gli studenti si sono “impigriti” come tutti dicono?
Non credo impigriti ma demotivati sicuramente. Le limitazioni negli sport di squadra, sia riservati agli allenamenti sia alle competizioni, ha fatto “perdere” molto tempo alle fasi di apprendimento dei ragazzi, soprattutto coloro che rientrano nelle fasce giovanili. La pigrizia si combatte con gli stimoli. Sta alle aziende educative dello sport riannodare le fila con i ragazzi creando ambienti ed attività stimolanti capaci di riprendere e colmare il gap che si è naturalmente creato con lo stop forzato.
Il progetto “Movimento e benessere per tutti” che svolge alla scuola media di Valdobbiadene è un grande successo. In che cosa consiste?
Effettivamente ha avuto un riscontro insperato. Come docenti di Educazione fisica, io e la collega Lorena Brugnera, abbiamo fatto una scelta piuttosto radicale. Offrire un’attività sportivo-educativa integrativa pomeridiana solo a coloro che non avevano nessuna possibilità di praticare uno sport strutturato con le società del territorio. Ci siamo ritrovati con i corsi completi, dovendo accettare anche un surplus di iscrizioni. Le famiglie hanno recepito il messaggio e molti alunni e alunne hanno avuto modo di praticare delle attività giocose, stimolanti e divertenti con tutte le ricadute sul piano educativo che un’esperienza scolastica può generare.

Allenare è sempre stato il suo amore più grande. Come si avvicina un giovane all’atletica?
Nell’atletica la competizione è una lotta con se stessi che richiede molta autodisciplina. Nell’atletica la competizione (diretta o indiretta) confronta i tempi e le misure degli atleti che sono valutati e paragonati a tempi e misure fatti da altri atleti. È considerata, e sostanzialmente è, una disciplina individuale con tutti i pro e i contro. In atletica non ci si può nascondere. Nelle attività di squadra ogni tanto si vince, alla peggio si può anche pareggiare. In atletica questo non avviene. È molto facile “perdere”; pertanto, chi si avvicina all’atletica per il piacere di far vedere come si sono evoluti i propri schemi motori di base deve essere educato ad entrambi i rovesci della medaglia: vincere ma soprattutto a perdere. Non deve sentirsi super solo perché ha battuto tutti gli avversari e, allo stesso tempo, non deve considerare la sconfitta come un fallimento. Entrambi i risultati faranno crescere: la vittoria e la sconfitta dovrebbero essere ambedue incentivi per migliorarsi ancora. Chi si migliora “vince” sempre, al di là del piazzamento. Se un ragazzino si presenta al campo di atletica e lentamente interiorizza questi concetti, l’atletica sarà il suo “amore” per sempre.
Quali risultati hanno raggiunto i suoi atleti?
Sinceramente non bado molto al prestigio dei risultati raggiunti dagli atleti che seguo. Per me è importante che stiano bene, che siano appassionati, che tengano un profilo basso, che abbiano un comportamento adeguato e possiedano dei valori, tra cui la fiducia nei confronti di chi li allena. Nel passato ho avuto il piacere e la soddisfazione anche di allenare atleti di caratura mondiale. Come preparatore atletico ho goduto di diverse promozioni di categoria in diverse discipline (calcio in primis, ma anche pallavolo e pallacanestro). In atletica è molto difficile emergere. La concorrenza è grande. Non alleno professionisti ma bravissimi studenti (molti di loro sono usciti con un bel 100 alle superiori) impegnati con l’università. Però qualche cosa ho raccolto: una “mia” atleta ad inizio marzo è stata medaglia d’argento ai nazionali di corsa campestre, altri sono entrati nella “top ten” ai nazionali indoor e outdoor di categoria.

Ha mai pensato di appendere al chiodo il cronometro di allenatore?
Sono una persona atleticamente curiosa, mi piace mettermi in gioco, quindi sperimento e mi lancio sempre in nuove esperienze. Nel passato ho allenato di tutto, non solo gli sport più conosciuti ma anche tamburello, ciclismo, ciclocross, orienteering, motocross freestyle, sempre con passione e rigoroso impegno. Adesso, anche per l’età che avanza, sono tornato alla disciplina con la quale ho raccolto maggiori soddisfazioni da atleta, è meno stressante e probabilmente più gratificante. Al celebre chiodo ho attaccato le scarpe (e sono ancora lì) nel 1984; nessuna tentazione di rimetterle. Ad appendere al chiodo il cronometro non ci penso neppure. Fra un paio d’anni sarò in pensione e quale può essere il modo migliore per spassarmela se non in mezzo ai ragazzi, dare loro consigli e vivere con loro gioie e delusioni?
Se le chiedessi di esprimere con una sola parola più di quarant’anni di carriera da atleta, professore e allenatore quale sceglierebbe?
Se mi è concessa una sola parola questa è sacrificio. Se posso aggiungerne altre, allora scelgo impegno, passione, determinazione, tenacia, coerenza e amore per il proprio lavoro.
(Fonte: Luca Nardi © Qdpnews.it)
(Foto: per concessione di Giovanni Modesto Bonan).
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