Oggi è la Giornata mondiale della salute mentale. La storia del Sant’Artemio, l’ex Ospedale psichiatrico di Treviso

Oggi 10 ottobre si celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale (World Mental Health Day) istituita trent’anni fa e riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con lo scopo di promuovere la consapevolezza e la difesa della salute mentale contro lo stigma sociale.

Con il passare dei secoli, il modo di considerare e trattare terapeuticamente le malattie mentali si è notevolmente trasformato, ma è con quello che viene definito “grande internamento manicomiale” avvenuto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che vi fu un’importante svolta nel modo di rispondere ai fattori di incertezza e turbamento sociale da cui spesso vengono accompagnate le persone che soffrono di disturbi mentali.

Come in tutto il mondo occidentale, ugualmente in Veneto si cominciò a far fronte a questo tipo di esigenze, concentrando la maggior parte dei sofferenti mentali della regione nelle due isole-manicomio di San Servolo e San Clemente, l’una sede del manicomio maschile, l’altra di quello femminile, localizzabili nella porzione di laguna chiusa fra il Lido e la Giudecca.

In seguito a un notevole aumento di ricoveri anche in provincia di Treviso nel 1904 il Consiglio di amministrazione dell’Ospedale Civile e della Casa degli Esposti deliberò la cessione di un’area di sua proprietà per la costruzione di un manicomio. Dopo le varie autorizzazioni e le necessarie procedure burocratiche, nel 1908 ebbero inizio i lavori e il 1° luglio 1911 il giornale di Treviso annunciò la prima messa in funzione del manicomio, l’ospedale psichiatrico di Sant’Artemio (nella foto d’epoca), il cui direttore fu Luigi Zanon Dal Bò, che operò per ben 32 anni.

L’area dell’ospedale, chiaramente recintata, si sviluppava su un disegno simmetrico secondo geometrie tipiche di quel tempo che si ispiravano ai giardini all’italiana ed era prevista la separazione netta tra i vari padiglioni – maschi e femmine occupavano reparti differenti – ottenuta mediante viali alberati.

Vi era così un primo padiglione dedicato alla stretta osservazione dei “nuovi arrivati”, in cui quest’ultimi dovevano permanere per almeno trenta giorni; un secondo padiglione per pazienti che si dimostravano essere piuttosto tranquilli; un terzo padiglione riservato invece a coloro che erano ritenuti massimamente gravi e alienati; un ulteriore padiglione occupato da chi poteva permettersi di pagare e che quindi veniva trattato più favorevolmente; e infine, un ultimo spazio dedicato all’isolamento delle persone che avevano contratto malattie infettive.

Nei primi decenni del Novecento, a Sant’Artemio, così come nella maggior parte dei manicomi italiani, due erano le principali cure: la clinoterapia, consistente nel riposo forzato a letto, e l’idroterapia, per cui si eseguivano bagni che potevano durare anche ventiquattr’ore. A queste si univa l’ergoterapia, nota come la terapia del lavoro, che prevedeva attività differenziate – di tipo artigianale, agricolo o domestico – in base al sesso e alle occupazioni che i pazienti praticavano prima del ricovero: venivano coltivati ortaggi, mais, frumento, foraggio; si allevavano bestiame, animali da cortile e animali domestici; vi era la sartoria, la falegnameria, la calzoleria e l’officina del fabbro. I pazienti si occupavano inoltre della manutenzione degli ambienti interni e dei giardini. In questo modo ai malati era data la possibilità di sviluppare, recuperare o mantenere le competenze della vita quotidiana e lavorativa e la struttura clinica veniva convertita in una piccola città, quasi del tutto autosufficiente.

Successivamente vennero introdotte, attraverso la predisposizione di diversi gabinetti attrezzati per la ricerca scientifica e la somministrazione, altre terapie di tipo somatico e soprattutto di shock come la malarioterapia, l’insulinoterapia e l’elettroshock. Oltre che rischiose, esse si rilevarono scarsamente terapeutiche dal momento che portavano spesso alla cronicizzazione del degente spalancandogli la strada all’internamento manicomiale definitivo, tanto che nel corso del tempo, si rese necessaria l’apertura di quattro succursali del Sant’Artemio: a Mogliano Veneto, Oderzo, Valdobbiadene e Vittorio Veneto.

Le due guerre costituiscono un capitolo a parte per la storia del manicomio trevigiano. Durante il primo Conflitto il Sant’Artemio si trasformò in un ospedale militare di riserva, tanto che nel 1915, cento posti su un totale di circa trecento erano riservati ai militari. Anche nel primo dopoguerra, la struttura divenne un punto di riferimento centrale per i molti soldati colpiti dalla nevrosi traumatica causata dalle reminiscenze dei tragici avvenimenti in trincea. Nel corso della seconda Guerra mondiale è invece ammirevole ricordare il prezioso aiuto offerto ad alcuni ebrei e ad altre presone perseguitate da parte del direttore Alessandro Tronconi, il quale li fece ricoverare al Sant’Artemio, con diagnosi fasulle di malattie psichiatriche proprio per sfuggire ai nazisti.

Come per tutti gli ospedali psichiatrici italiani, anche per il Sant’Artemio, il 1978 con l’approvazione della Legge Basaglia che sanciva la riforma dell’assistenza psichiatrica e la chiusura dei manicomi, rappresentò una chiave di volta, almeno sulla carta. La situazione si sbloccò definitivamente solo verso la metà degli anni ’90, quando il governo in carica cominciò a definire in modo dettagliato modalità e tempi per la chiusura degli Ospedali psichiatrici e la creazione dei Dipartimenti di Salute Mentale. Così, in maniera piuttosto graduale, e attraverso un monitoraggio individualizzato, si cercò di trasferire i pazienti, i cosiddetti “residui psichiatrici”, in altre strutture di accoglienza del territorio.

Nel 1996 il Sant’Artemio chiuse definitivamente, diventando un luogo abbandonato e un ricovero di fortuna per i senza dimora. Nel 2005 l’Amministrazione Provinciale acquistò l’area decidendo di farne la sede degli Uffici provinciali, e affidò il progetto di restauro all’architetto Toni Follina.

Osservando oggi la sede dell’Amministrazione trevigiana si nota subito come la struttura originaria sia stata fondamentalmente rispettata; così pur con i cambiamenti resi necessari dalla funzione attuale (come le passerelle metalliche che uniscono i diversi padiglioni), chi visita ora questo luogo può immaginarsi il vecchio manicomio.

(Foto: Wikipedia – riproduzione di cartolina di Francesco Turchetto).
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