Una vita negli abissi: Ennio D’Altoè, sommozzatore giramondo di Mareno racconta come è cambiato il modo di lavorare sott’acqua

“All’inizio non sapevo nemmeno nuotare bene. Giusto qualche bracciata nel Monticano” racconta Ennio D’Altoè, lupo di mare originario di Mareno di Piave, classe 1954, barba folta e bianca – Facevo il radiotelegrafista durante la naja, in Marina. A quel tempo durava ventiquattro mesi. A Taranto avevano organizzato un concorso per formare palombari. Ci provo, mi sono detto”.

Ennio ricorda limpidamente la prima volta sott’acqua, quando venne bocciato al test dei segnali luminosi, e anche quando, ritentando, venne scelto per intraprendere un viaggio che, iniziando a La Spezia, l’avrebbe portato un po’ ovunque nel mondo.

Anche oggi si occupa di seguire le operazioni subacquee per conto di compagnie nazionali e internazionali che gestiscono le grandi infrastrutture marittime: da una piattaforma all’altra, D’Altoè ha imparato molti segreti del lavorare sott’acqua.

Da profondità superficiali a complesse operazioni negli abissi, fino a 500 metri, può testimoniare in prima persona il cambiamento di un mestiere che ancora oggi presenta dei rischi e per il quale è necessario un altissimo livello di preparazione.

“Per tutta la mia vita ho fatto corsi di formazione: ogni operazione richiede un corso specifico – racconta D’Altoè – All’inizio della mia carriera affidarono la mia squadra agli sminamenti, per un anno. Ci dissero di non dire niente mai né alle nostre fidanzate né ai nostri figli. Dovevo imbarcarmi sull’Amerigo Vespucci, ma hanno preso un altro al posto mio. Così ho detto loro di mandarmi lontano, in Sicilia. Da lì i miei “padri di Naja” sono partiti alla volta del Borneo e così tra il 1974 e il 1976 ho cominciato a lavorare con compagnie private, dalla Shell alla Saipem”.

“Si lavora a diverse profondità con tecniche diverse – spiega – qualche volta anche solo in superficie. In Brasile capita di scendere anche fino ai 400 metri, mentre a Baku in Azerbaijan si lavora a 180. Certo è cambiato tutto adesso: un tempo si scendeva con le bombole e basta, ora ci si muove con altre tecnologie e ogni sommozzatore è dotato di diverse telecamere. In genere, il sommozzatore ha il solo compito di operare mentre a guidarlo ci pensa l’ingegnere, che si trova in cabina. Quando l’acqua è limpida le operazioni sono più semplici, quando invece è torbida, tornano utili le conoscenze da vecchio sommozzatore”.

“Una delle difficoltà più grandi dei lavori in profondità è il dosaggio della pressione parziale dell’ossigeno – spiega, – che aumenta man mano che scendi. Oltre una certa soglia, l’ossigeno diventa narcotico. Nonostante ora sia molto più raro, anch’io ho perso qualche collega negli anni”.

D’Altoè ritiene che questo mestiere fosse più stimolante, un tempo: non tanto per quanto riguarda le operazioni sott’acqua, quanto per l’esperienza tra un lavoro e l’altro. “Nel passato si usava stare intere settimane nelle zone dove si andava a operare. Era qualcosa da autentici marinai, che scoprono e si adattano ai luoghi dove vanno a lavorare. Per i giovani continua a essere interessante e, a proposito, dovrebbero aprire un corso proprio per avviare ragazzi e ragazze a questo mestiere”.

(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it)
(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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