Treviso, intervista a Michela Pavesi: “Mia nipote Cristina vittima senza giustizia della mafia di Felice Maniero”

13 dicembre 1990. Una data destinata a rimanere impressa nella memoria di Michela Pavesi, professionista trevigiana e, soprattutto, zia paterna di Cristina Pavesi, studentessa di 22 anni che perse la vita durante un agguato ordito dalla banda di Felice Maniero, boss della mafia del Brenta, ai danni di un vagone postale.

Quel giorno Cristina Pavesi stava rincasando dall’Università di Padova, ateneo dove si era recata per concordare con il proprio relatore l’argomento della tesi di laurea.

Una giornata come tante altre che si sarebbe di lì a poco conclusa in tragedia. Cristina era a bordo del diretto Bologna-Venezia, treno che passava al momento dell’esplosione che coinvolse un secondo diretto, il Venezia-Milano: gli uomini di Maniero avevano progettato l’assalto al vagone postale e, in un secondo tempo, avevano collocato del tritolo sui binari, in maniera tale da sventrare in due il treno ed impossessarsi del bottino.

La deflagrazione provocò la morte sul colpo di Cristina e altre persone ne uscirono ferite, mentre i banditi riuscirono a fuggire con appresso i valori del vagone postale. Una pagina di storia dolorosa, soprattutto per la famiglia della giovane, una “vittima senza giustizia”, per la cui morte Maniero e i suoi ricevettero soltanto tre mesi, con la motivazione che tale uccisione “non era stata programmata”.

Ancora oggi, come allora, la figura di Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta – spesso chiamata ‘mala’ -, meglio conosciuto come “Faccia d’angelo”, continua a suscitare una certa curiosità, a tratti morbosa, per l’entità dei colpi messi a segno e dei crimini commessi.

Classe 1954 e originario di Campolongo Maggiore, in provincia di Venezia, Maniero fu al centro della cronaca soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, decenni dove venne accusato di omicidi, traffico d’armi, droga, e associazione mafiosa. Fu protagonista di episodi di evasione dal carcere e di furti eclatanti, come quello del mento di Sant’Antonio da Padova nel 1991, per poi diventare un collaboratore di giustizia a partire dal 1995 aiutando, di fatto, a smantellare la sua stessa banda.

Non volevo fare l’operaio. Mi sono preso il ruolo di boss e non ho mai avuto paura. Mi sentivo padrone di ogni situazione”, è quanto l’ex boss ha raccontato a Roberto Saviano il 9 gennaio 2019 in riferimento alla sua ascesa criminale, in occasione di un’intervista andata in onda sul canale Nove.

Una figura che Michela Pavesi, considerato quanto avvenuto alla nipote, non ha mai smesso di seguire nelle sue vicende giudiziarie, grazie anche alla collaborazione con la giornalista Monica Zornetta.

13 dicembre 1990: una data che ha segnato per sempre la sua storia e quella della sua famiglia. Come avete appreso la notizia della tragica morte di Cristina?
Terribile, terribile come ci è stato detto. Io ero a cantare e i suoi genitori la aspettavano per cena, a Conegliano, città dove si erano trasferiti per il lavoro di mio fratello, e invece si sono presentati alla porta i carabinieri e il parroco per dir loro che Cristina era morta. A casa mia c’era mia mamma e una giornalista ha chiamato per chiedere cosa fosse accaduto. Logicamente mia mamma non sapeva nulla, quindi è rimasta un po’ confusa e la giornalista ha interrotto la telefonata. Ho capito che qualcosa doveva essere successo, anche perché per tre notti avevo fatto dei sogni strani. Il giorno prima che Cristina venisse uccisa, avevo sognato un lungo treno e io morivo, ma non ero io a morire. Ho telefonato subito a mio fratello, che mi ha avvisato di Cristina.

Si dice che Cristina sia una “vittima senza giustizia”. Che è successo dopo la sua morte?
È veramente una vittima senza giustizia perché lo Stato ha agito in un determinato modo. L’importante era sgominare la mafia del Brenta che aveva delle connotazioni particolari, perché era del territorio e non proveniva dal Sud. Il primo magistrato a capire questa cosa è stato il giudice Francesco Pavone. Hanno avuto semplicemente tre mesi per la morte di Cristina. Tre mesi. Questo perché, quando hanno compiuto la rapina, non avevano intenzione di uccidere. Tutto questo è stato gravissimo. Lo stesso magistrato Pavone mi disse che se fosse stato lui il giudice al processo, non avrebbe mai dato loro soltanto tre mesi.

Le faccio un nome che si aspetterà di sentire: Felice Maniero. Lei e la sua famiglia avete mai incontrato lui o qualcuno dei suoi? Spesso si è sentito parlare di un loro pentimento per la morte di Cristina: lei ci crede?
Non ho mai incontrato Maniero e non credo ad un suo pentimento: non ha fatto mai nulla per dimostrarlo. Ho incontrato, invece, gli altri componenti della banda, davvero pentiti, che si sono fatti 36-37 anni di prigione.

C’è sempre stata una certa curiosità attorno al profilo di Felice Maniero, noto come Faccia d’angelo. Gli sono stati dedicati dei volumi e un film: che cosa ne pensa?
Si è un po’ favoleggiato attorno a lui, anche per via del suo aspetto fisico. Tanti giornalisti parlano di ‘Mala del Brenta’, sdoganando la parola ‘mafia’. Ma così fanno un torto alle vittime, come tutta questa pubblicità e il film, perché Felice Maniero ha fatto del male a tutta la società.

Alla luce delle vicende processuali che hanno coinvolto Maniero e il caso di sua nipote, si è fatta una sua personale idea della giustizia italiana?
La giustizia italiana ha dei tempi lunghissimi per la burocrazia. Ho letto che qui in Veneto ci sono pochissimi magistrati e ne servirebbero di più. Anche i processi a Maniero si sono protratti per lungo tempo, sgranando un po’ la vicenda. Penso che la giustizia italiana dovrebbe essere meno inceppata.

A Conegliano l’Informagiovani è stato intitolato a Cristina, mentre lei è impegnata in appuntamenti in sua memoria. Quanto è importante la dimensione del ricordo e, soprattutto, che i giovani continuino a ricordare Cristina?
Per me è fondamentale incontrare i ragazzi. L’altro giorno uno di loro mi ha chiesto che cos’è che mi fa andare avanti, io gli ho risposto che se solo uno di loro prende coscienza di quanto è importante la legalità, io ne sarei contenta. Voglio che ci sia una società migliore.

Ultimamente si parla e si è parlato della mafia del Nordest. C’è pericolo, secondo lei, che ritorni una nuova mafia del Brenta? La comunità può, in qualche maniera, contrastarla?
Siamo invasi da una nuova mafia, come quella nigeriana o di Eraclea, e credo che spazio per una mafia territoriale non ce ne sia, ma ci sono mafie più sottili. Pensiamo alla questione dei rifiuti, ai tanti negozi che aprono e chiudono, ad alcune sale da gioco: sono tutte delle lavatrici di soldi. Noi veneti dobbiamo aprire gli occhi e capire che stiamo rischiando grosso, dato che ora esiste la mafia dei colletti bianchi, nella quale sono coinvolti anche tanti professionisti.

(Fonte: Arianna Ceschin © Qdpnews.it).
(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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