La pinza del Piave raccontata dal mastro fornaio Romeo Bortoluzzi: “Tengo viva la tradizione, oggi tramando la ricetta ai nipoti”

L’origine della pinza si perde nella notte dei tempi, in un intreccio fra usanze, leggende e canti popolari. 

Non c’è giorno più adatto del 5 gennaio per ripercorrere la storia di questo dolce legato alla tradizione del Panevin

In questo periodo dell’anno infatti le famiglie contadine di un tempo erano solite impastare quel poco che si aveva a disposizione, perlopiù farina di polenta, strutto, pezzi di mela, uva passa e qualche fico secco, ottenendo un composto semplice ma prelibato, che veniva poi avvolto in foglie di verza. Questo fagottino, si parlava infatti di pinza “infagotada”, veniva poi cotto fra la cenere e le braci ardenti del camino, oppure, in versione più grande, proprio sotto le fascine del Panevin, quando tutto il paese era in festa. 

Non si contano le varianti della “pinsa” che cambiano da città in città, anche a distanza di pochi chilometri; per questo è difficile stabilire la versione “definitiva” di questo dolce molto diffuso in Veneto, in particolare nel Trevigiano e nel Bellunese, ma anche in Friuli e in alcune vallate trentine. 

La pinza in genere si presenta come un dolce basso e compatto a base di farina di mais, pane raffermo, uvetta e talvolta anche semi di finocchio. Sono questi in particolare gli ingredienti della “pinza del Piave”, dolce che Romeo Bortoluzzi, fornaio in pensione, ha preparato per una vita, prima nel suo negozio a Pezzan di Carbonera e oggi nel suo “forno domestico” dove tramanda la ricetta alla nipote Aurora.

Romeo, per dodici anni Presidente dell’associazione panificatori di Treviso, nonché promotore del corso di panificazione al Brandolini di Oderzo – ci ha accolti nella sua taverna profumata di dolce appena sfornato. 

“Mi piace preparare la pinza del Piave perché è quella più povera, che più si avvicina a quella che preparavano le famiglie contadine di una volta – racconta -. Un tempo, per ammorbidirla, ci mettevano anche lo strutto ricavato dall’uccisione del maiale che avveniva nel giorno di Santa Lucia. La pinza vittoriese è più ricca, e c’è addirittura chi la fa lievitare con l’aggiunta di lievito madre. Io ci metto solo dell’uvetta e i semi di finocchio, ma ne esistono versioni con scorza d’arancio grattugiata, fichi e la cannella. 

Se sulle varianti c’è spazio per i gusti e le usanze di ciascun paese, sull’abbinamento non ci sono riserve. La pinza si mangia con il vin brulè. Il vino rosso, in certe zone del Trevigiano anche bianco, veniva bruciato per diminuire il grado alcolico trasformandolo in una bevanda calda, leggermente speziata, adatta anche a donne e bambini. La pinza è amata, e si fa amare da tutti, anche dagli stranieri. Ricordo quando un fornitore austriaco dopo averla assaggiata me ne chiese sei quintali da inviare a Vienna. Lavorai per tre giorni: mi ci vollero ben 35 casse di uvetta”. 

(Fonte: Rossana Santolin © Qdpnews.it)
(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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