C’era una volta il collodio: Rudy Buso custode delle tecniche fotografiche dell’Ottocento nel suo studio di Segusino

 


Oggi per fare una fotografia da incorniciare è sufficiente usare un buon telefono cellulare o una macchinetta economica, una volta invece, e neanche troppo tempo fa, la fotografia era considerata un’arte preziosa, dispendiosa ed estremamente complessa
.

Sebbene il progresso tecnologico abbia messo velocemente all’angolo le tecniche usate tra Ottocento e Novecento in favore di strumenti semi automatici, c’è chi sostiene che la magia e i segreti della fotografia di una volta abbiano un fascino eterno e ineguagliabile.

Tra gli amanti del vecchio stile c’è anche il vidorese Rudy Buso, che ha deciso di assecondare la sua passione per la fotografia antica documentandosi da autodidatta e ottenendo poco a poco nozioni e materiali utili a riprodurre questo particolare genere di immagini.

“La fotografia dell’800 è una cosa folle, è riuscire a catturare quella sfumatura impalpabile nell’espressione del soggetto e riuscire a mantenerla nel tempo necessario a scattare la foto, ovvero una quindicina di secondi – racconta mentre armeggia con lastre di vetro e una lente Vöigtländer sul suo banco ottico restaurato”.

“Oggi scattiamo centinata di fotografie in serie: in una riusciremo pure a catturare la posa e il momento perfetto no? – racconta Rudy ospitandoci nel proprio studio di Segusino -. Con questa tecnica, invece, il tempo si dilata e tutto si gioca tra fotografo e soggetto in una comunicazione muta ma intensissima, fino a quando ogni tassello va al suo posto e si scatta. Uno solo scatto: se cede la connessione tutto è perduto ma forse è anche questo il bello, perché si è obbligati a prestare più attenzione al dettaglio. Per me è poesia”.

Rudy ci porta in un altro mondo parlando dei grandi fotografi dell’800, di cosa significasse un tempo dedicarsi a quest’arte: ricavare un’immagine “che parlasse” poteva richiedere giornate intere alla ricerca della giusta sintonia tra i soggetti.

Essere fotografi a quel tempo significava essere anche un po’ chimici, perché si aveva a che fare con nitrato d’argento, collodio, alcool solfato ferroso, tutti componenti delicati o rari, da maneggiare con cura. I fotografi di una volta erano abituati a partire da zero e recuperavano tutto ciò che serviva tra chimici e lastre di vetro.

“La ritengo un’arte piena di pathos, di sentimento e di poesia, forse è per questo che sono un po’ restio a farla diventare il mio lavoro vero e proprio – racconta Buso -, ho paura di sminuire e portare meno rispetto a quest’indomabile passione perché la fotografia, c’è poco da fare, ha migliorato la mia vita più di quanto io avrei avuto l’ardire di chiedere”.

“La mia prima lastra non la dimenticherò mai: tantissima fatica per arrivarci e poi eccola lì, letteralmente nero su bianco a prendere forma davanti ai miei occhi – dice con occhi gentili Rudy – So di aver fatto una bella fotografia quando il soggetto si osserva e quasi non si riconosce: vuol dire che si è lasciato andare, aprendosi ha permesso al collodio di penetrare in lui per far emergere una sua versione assolutamente intima e forse sconosciuta”.

(Fonte: Alice Zaccaron © Qdpnews.it).
(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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