Orsago, l’esule giuliano Antonio Bottan si racconta: “Fare memoria per non ricadere negli stessi terribili errori”

Fare memoria per non fare gli stessi errori: è questo l’insegnamento che ci trasmette Antonio Bottan (nella foto) e che riassume la vicenda vissuta con la sua famiglia.

Esule giuliano, nacque a Fiume il 28 ottobre del 1936 da papà Gioacchino, di Orsago, e da mamma Giovanna Delost, natia di Fiume, entrambi lavoratori presso i cantieri navali. Antonio Bottan compirà ad ottobre 84 anni, risiede ad Orsago ed è sposato da 57 anni con Elsa. Dalla loro unione sono nate Cristina e Stefania, entrambe oggi sposate e che gli hanno dato la gioia di essere nonno di tre nipoti maschi.

Per quarant’anni ha lavorato nella scuola, dapprima nel ruolo di insegnante e poi ha ricoperto il ruolo di direttore della scuola professionale di Tezze-Codognè e Cordignano-Codognè. È stato consigliere comunale e vice sindaco. Ha ricoperto il ruolo di consigliere nella Cassa Rurale, oggi Banca della Marca. Circa 22 anni fa ha accettato di presiedere l’università della terza età, che poi è stata trasformata nel Circolo Culturale don Giuseppe Zago. Nel 2000 ha fondato e da allora continua a presiedere il Circolo Artistico Francesco Pollesel. Ama dipingere, legge molto ed è appassionato di film.

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Antonio racconta quelle pagine di vita personale, che racchiudono la storia di tante persone italiane, costrette a lasciare tutto e a scappare.

“Fiume era una città bellissima, allegra, piena di vita, ricca di attività, di industrie, con edilizia e aspetto curato. Lì vissi bene la prima infanzia, fino alla prima elementare. Poi scoppiò la guerra e i miei genitori mi portarono a Orsago, dai nonni paterni. Dopo diversi mesi vennero a trovarmi e si convinsero di riportarmi con loro a Fiume, che in quel momento era sotto l’occupazione tedesca. Passavo il mio tempo prevalentemente nei rifugi antiaerei scavati nelle vicine rocce carsiche.

Alla fine della guerra i tedeschi si ritirarono e la città fu conquistata dai partigiani di Tito. Non dimenticherò mai le prime luci dell’alba del 3 maggio 1945: un’orda selvaggia scese dalle montagne. Ogni famiglia si chiuse in casa, con i balconi chiusi, per manifestare disagio, disapprovazione e, soprattutto, paura. Affinché possiate capire la situazione di allora, cosa è successo in Istria alla fine della Seconda guerra mondiale, vi chiedo di richiamare alla memoria la guerra in Jugoslavia, dopo la morte di Tito, attorno al 1990, tra kossovari, serbi, montenegrini e croati e moltiplicate per un numero indefinito ciò che avete sentito. Le brutalità superarono di gran lunga quelle dei nazisti: uccisioni, violenza, stupri e deportazioni si moltiplicarono. La paura aumentava, specialmente di fronte al fatto che molte persone sparivano.

I miei genitori, come tutti, cercarono di capire, di informarsi, ma la risposta era sempre la stessa: “Sono venuti degli slavi, quelli con il berretto con la stella rossa, hanno caricato sul camion una, due persone o una intera famiglia e li hanno portati fuori città. E poi non si seppe più nulla”.

Dopo l’esecuzione sommaria, anche direttamente per le strade, di coloro che erano considerati in odore di fascismo o di collaborazionismo, incominciavano a sparire gli italiani: le loro case e i loro beni depredati, le case poi occupate da dirigenti del partito o semplicemente da slavi che Tito faceva confluire in massa in città per diluire, cancellare la italianità.

Molti anni dopo si incominciò a parlare di foibe e allora capii dove erano finiti molti italiani. La paura nel frattempo cresceva, soprattutto di fronte alle frequenti sparizioni di italiani. Cresceva anche la convinzione che per gli italiani, a Fiume come in Istria, non c’era futuro. Molti incominciavano a scappare, prima furtivamente, poi in massa, dando luogo a quell’esodo forzato da Tito stesso, con le tremende sue disposizioni per cui prima dovevi lasciare tutto ciò che possedevi, compresi i beni personali (denaro, oro, gioielli).

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I miei genitori furono tra i primi a partire da Fiume e qui prende avvio l’avventura, per un ragazzo di nove anni, che non dimenticherò mai.

Una sera di fine maggio mamma mi mise addosso due vestiti, e così fece lei, prese una sporta, vi mise dentro una coperta e qualcosa da mangiare e ci incamminammo verso nord. Uscimmo da Fiume e ci dirigemmo verso Trieste. Camminammo tutta la notte, alle prime luci dell’alba approfittammo di qualche carro agricolo che faceva la stessa strada e poi per fortuna ottenemmo un passaggio su un camion che portava materiale a Trieste. Trieste era un autentico caos di jeep, camion, cingolati di diversi militari, americani, inglesi, slavi, eccetera.

Trovammo riparo nella sala d’aspetto della stazione dove dormii finalmente sulle panche finché prendemmo il primo treno merci diretto a Udine. Qui finalmente si respirava un’aria diversa, e il senso di paura si affievolì. La stazione era piena di americani con gli altoparlanti. Invitavano i profughi a prendere del cibo. Ne approfittai. Ricordo sempre quel piatto stracolmo di “subiotti” un po’ grigi, lessati, senza sale né condimento, ma che costituirono il primo pasto dopo giorni. Feci replica.

Poi un treno ci portò fino a Sacile e da qui a piedi fino ad Orsago, dove ci accolse un senso di liberazione. Papà ci raggiunse dopo una settimana, scappato da Fiume in bicicletta percorrendo strade secondarie. Mentre gli esuli furono, ripeto, malvisti e peggio sopportati sparsi nei campi di raccolta in tutta Italia, noi fummo più fortunati in quanto avemmo un punto di riferimento nella casetta che mio padre aveva acquistato per i suoi vecchi con i primi risparmi guadagnati in miniera in Francia prima di trasferirsi a Fiume.

Partimmo logicamente da zero e lentamente con molti sacrifici rifacemmo la nostra vita.

Concludendo, il Giorno del Ricordo che si celebra il 10 di febbraio, come quello della Memoria che si celebra il 27 di gennaio, è bene siano celebrati ogni anno e in ogni occasione propizia, senza spirito vendicativo, ma come memoria di quei momenti dolorosi sofferti in nome dell’italianità in Istria, come nei campi di raccolta in Italia. Lo dobbiamo fare tutti, in nome di quel silenzio e di quell’indifferenza durate cinquant’anni, e, nel contempo, dobbiamo maturare uno spirito di conciliazione e di convivenza, oltre che di ferma convinzione di non ricadere più negli stessi terribili errori”.

 

(Fonte: Loris Robassa © Qdpnews.it).
(Foto: per concessione di Antonio Bottan).
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