Un museo di campanacci, per ricordare i tempi in cui “vacca” era sinonimo di vita. È così che è stata riscoperta, rispolverata e riproposta la storia di Mario, il collezionista di campanacci, che vive tra Crespignaga e Casella d’Asolo, in una casa che ha ristrutturato soltanto per metà: è lì che custodisce una collezione di oltre seicento campanacci, tutti appartenenti a epoche, località, tipologie, materiali differenti.
Una gamma vastissima, di inestimabile valore storico, capace di riassumere quanto un tempo l’alpeggio fosse necessario per il sostentamento di un paese collinare e per i suoi abitanti.
Il percorso di ricerca che Mario ha portato avanti in sessant’anni è quasi più interessante della collezione stessa, perché le storie di ogni campanaccio si intrecciano inevitabilmente con la sua esperienza: nato e cresciuto tra i pascoli, sulle colline di Maser, già da ragazzo era stato coinvolto nella vita tra gli animali.
Aneddoti come quello di una mucca corpulenta di nome Vattina, i cui “tetti” toccavano il suolo, che seguiva il pastore nei suoi movimenti e riconosceva chiaramente il proprio nome: “Bisognava starsene sempre in piedi – racconta – per far sì che Vattina non si mettesse anch’essa seduta”; storie come la testardaggine dello zio Amedeo, il quale non voleva vendere una mucca che non produceva più latte, perché meglio di tutte suonava il campanaccio.
Per procurarsi una quantità tale di campanacci, Mario ha conosciuto e poi trattato con molte persone nella zona, in Cadore e persino in Francia: a ogni occasione, a ogni mercatino dell’antiquariato che nella sua vita ha avuto la fortuna di incontrare, il collezionista ha valutato e poi acquisito pezzi fondamentali, preferendo quelli che sembravano essere più antichi, particolari o notevoli.
“La soddisfazione più grande è stata ritrovare i campanacci di mio padre” commenta. “Io ho vissuto con lui il vero pascolo: quando le vacche non venivano sfruttate, quando vivevano vent’anni e tenerne dieci era impensabile”.
E così Mario ricorda quando nelle malghe non c’erano soldi, quando si scambiava una parte del latte con le spese di mantenimento della mucca, quando le si faceva partorire prima di Natale, in modo da non doverlo fare durante l’alpeggio, ricorda la Malga alle Mure nel terreno della Meda.
Passati che rimangono impressi nella memoria di Mario, sempre lucida e precisa tanto da ricordare la provenienza di ognuno degli esemplari, ma anche rimaste nei dettagli incisi nel bronzo e nelle leghe metalliche, nelle cinghie, nelle fibbie e nelle cuciture, che nella maggior parte dei casi sono originali e hanno quindi richiesto un restauro parziale per conservarne l’integrità.
Perdendosi nei filari di campanacci di questa collezione è possibile notare elementi come corone di rame, scritte, disegni e merletti d’abbellimento sulle campane, che cambiano moltissimo anche come forma.
Tornando indietro nel tempo fino ai primi anni del secolo scorso, le celebri Chamonix francesi rappresentavano i “pezzi di marca” in questo settore, ma prendendosi del tempo per esaminare gli scaffali più attentamente è possibile trovare esemplari molto particolari che presentano anche delle caratteristiche del tutto originali: una campanella che come pendolo ha il bossolo di una cartuccia, un titolo in lingua straniera, accompagnato da una stella, un disegno che ritrae un pascolo d’alta montagna, ultime tracce di un mondo in pericolo d’estinzione.
Al di là della funzione concreta di questo oggetto, ossia tracciare la posizione degli animali, l’ultima curiosità che non tutti sanno è che ogni singolo pezzo riproduce un suono assolutamente unico: sarebbe opportuno immaginare, in questa collezione che potrebbe diventare un giorno un museo, quanto il rintocco di ogni campanaccio rappresenti un passato fatto di vite forse umili, magari povere, ma piene, come quella di Mario.
(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it).
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